La band alt-rock di Cesena – Luigi Battaglia alla voce e ai synth, Ivan Braghittoni alle chitarre, Marcello Nori alla batteria e alle percussioni, Manuel Valeriani al basso – ha registrato The Bones Of The Earth, il suo quarto album in quasi un ventennio di attività, mixato e masterizzato da Lena Sutter, in uscita in CD e digitale oggi 16 aprile 2021 via Cagnìn Records dopo un’anteprima di ascolto in esclusiva full stream su Indie For Bunnies.
The Bones Of The Earth è un grido di dolore dedicato a chi è ancora capace di soffrire, sognare, costruire una via di fuga verso un futuro migliore. Il quartetto romagnolo ha elaborato le nove canzoni in scaletta nel corso di un work in progress durato circa un lustro, attraversando differenti generi e stati d’animo. “Il nostro obiettivo è sempre quello di creare un risultato riconducibile ai Suez, che suoni familiare, propriamente ‘nostro’, ma allo stesso tempo che si possa discostare completamente dai dischi precedenti”. Il post-umanesimo dei testi si riflette così nell’intarsio post-rock, post-punk, new wave e no wave della musica, contraddistinta da un songwriting scuro ma dalle cangianti aperture strumentali e da un’introversione quasi neo-folk. Il background del gruppo spazia da un punto di riferimento come Nick Cave & The Bad Seeds al legame con The Cure e Wall Of Voodoo, dall’influenza di Teenage Jesus And The Jerks e Young Marble Giants all’ispirazione fornita da formazioni come Pere Ubu, Xiu Xiu e Liars.
The Bones Of The Earth è anche un album fatto di immagini. Partendo da quella di copertina, immortalata nello specifico da Marcella Magalotti ad Aversa, in Campania, durante un lavoro sulle orme del percorso dei migranti, dallo sbarco alle varie strutture di accoglienza: l’obiettivo della fotografa si pone per contrasto su un luogo decontestualizzato che possa rappresentare un sollievo. Per proseguire con le foto che hanno ispirato vari brani: il primo singolo We Are Universe è nato dalla visione dello scatto di un uomo siriano che ritrova i propri figli in un campo di rifugiati e li bacia attraverso il filo spinato, con l’auspicio che ci sia, in questa esistenza, qualcosa che ricolleghi gli orrori procurati dall’uomo all’uomo alle situazioni positive che siamo comunque capaci di generare. Altre polaroid: se la title track The Bones Of The Earth è dedicata ad Alan Kurdi e ai tanti come lui che non ce l’hanno fatta, Hit The Man deriva dalle immagini della reporter ungherese che sgambettò i profughi, emblema di una parte ancora privilegiata di persone che tentano di arginare coprendosi gli occhi il vento infuocato dei disperati, mentre Kobane racconta la storia di Ayse Deniz Karacagil, la ragazza che divenne una combattente sul fronte curdo, morta in battaglia. Un altro degli episodi più cinematografici, il secondo singolo Humanity Is Dead, quasi un manifesto programmatico, ci ricorda del resto che l’umanità muore quando sempre meno ci interessa ciò che succede agli altri, purché non succeda a noi stessi.
The Bones Of The Earth è un ciondolante vagabondare che ci mantiene legati alla speranza che ci siano ancora lacrime da versare e coraggio per lottare. È un groppo in gola che non se ne va, un nodo allo stomaco che a volte assomiglia più a un pugno ben assestato, altre all’inquietudine che si aggrappa alla schiena della tua giornata.